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giovedì 29 settembre 2011

La Cina sta affrontando il peggior incidente petrolifero della sua storia ma nessuno ne parla


di Luca Scialò


Sarà che i disastri ambientali che avvengono in Asia non interessano i media internazionali, visto come tacciono sugli effetti devastanti che in questi giorni uragani ed esondazioni stanno avendo su Giappone, Cina e paesi limitrofi. O ancora, visto come tacciono sugli oltre 700 incidenti  dannosi per l’ambiente avvenuti in Cina dal 1998 ad oggi. O forse sarà che nel Paese della Lunga Marcia vige ancora una dittatura anacronistica, che blocca o rallenta la fuoriuscita di notizie scomode al di fuori dei confini nazionali



Fatto sta che la Cina sta vivendo il peggiore disastro ecologico della sua storia e nessuno ne parla. Un disastro ecologico iniziato lo scorso 4 giugno 2011 nella Baia di Bohai, nella parte nord-orientale del Paese. Il giacimento è gestito dalla società texana ConocoPhillips ma ne è proprietario lo stato cinese, essendo controllato al 51% della China National Offshore Oil Corporation (CNOOC).
E ‘molto difficile sapere con esattezza quale sia l’entità della fuoriuscita. Tra l’altro, il petrolio non arriva del tutto in superficie poiché trattenuto dal cosiddetto “fango di perforazione“, una miscela di sostanze chimiche, argilla e acqua estremamente dannosa per l’ambiente e anch’essa rilasciata in maniera massiccia.
L’epicentro della catastrofe si trova a 80 Km al largo della costa, dunque non è di facile accesso. E questa lontananza gioca a favore di Cina e ConocoPhillips, rendendo difficili i sopralluoghi da parte di enti indipendenti e imparziali.
Stando ai dati ufficiali diffusi dalla società texana, ad oggi i barili dispersi in mare sono 3.200, equivalenti a una chiazza larga ben 512 mc. A questi vanno aggiunti 700 barili di petrolio grezzo e 2.500 contenenti fanghi per la perforazione petrolifera. Anch’essi, come detto, altamente inquinanti.
Stime che non corrispondono a quella della National Oceanic Administration cinese, per la quale il tratto di mare inquinato è vasto quasi 5.500 km2, ovvero il 7% del Mare di Bohai.
Al di là del solito balletto di cifre con annesso rimpallo di responsabilità, è indubbio che la costa circostante è stata ampiamente colpita dall’inquinamento petrolifero. Anche le spiagge della grande città portuale di Qingdao sono “colorate di nero”, usando le parole del Quotidiano del Popolo.
Per quanto riguarda gli esseri umani, ad essere principalmente danneggiati da questo disastro sono ovviamente i pescatori, seguono a ruota gli agricoltori. Eppure, per ora, secondo fonti ufficiali “solo” 200 famiglie appartenenti a due contee di Hebei si sono unite per fare una stima delle perdite e chiedere i danni.
Secondo l’agenzia di stampa Xinhua, gli allevatori di pesce della zona hanno perso quasi il 70% della loro produzione. Il restante 30% è costituito da specie marine molto piccole, che interessano poco i consumatori.



Ma come è potuto accadere? Come per le stime dei danni, anche qui i pareri sono discordanti.
Per la società texana responsabile delle trivellazioni il problema è che il giacimento si trova su una faglia sismica, che si è aperta improvvisamente. Un incidente che la società ritiene “estremamente raro” e imprevedibile. Ma per la maggior parte degli esperti, si tratta di un errore umano. Le perdite sarebbero state causate da un carotaggio sbagliato che avrebbe rovinato la stabilità degli strati geologici.
Il 4 settembre (dunque ben 3 mesi dopo l’incidente!), la National Oceanic Administration ha seguito il consiglio degli esperti e ha ordinato di fermare lo sfruttamento di questo pozzo. E meno male, aggiungiamo noi!
Ma oltre a questo ritardo nel fermare i lavori malgrado la perdita, per la ConocoPhillips c’è anche l’aggravante di averlo reso pubblico solo il primo luglio, dunque 26 giorni dopo.
La National Oceanic Administration ha annunciato di voler avviare un procedimento legale contro la ConocoPhillips per ottenere il risarcimento dei danni ambientali causati dalla marea. Nell’Hebei, le su citate 200 famiglie di agricoltori hanno chiesto l’aiuto di un pool di 30 avvocati, che hanno accettato di rappresentarli gratuitamente. Tutto dipende dall’esito di una causa che richiederà molto tempo, anche se saranno aiutate da organizzazioni non governative locali.
Al loro fianco vuole esserci anche Greenpeace, e per bocca di uno degli attivisti locali, Li Yan, ha affermato: “Il risultato che otterremo da questo processo è estremamente importante perché costituirà un precedente. Se il giudice permetterà alla società texana di farla franca, in futuro tragedie simili si ripeteranno sempre più numerose in tutto il mondo. Quanto alla Cina, ci sono molte altre piattaforme petrolifere a rischio, tanto a Est quanto a Sud“.
Gli esperti ritengono che questo sia il più grave tra i 718 incidenti verificatisi tra il 1998 e il 2008, come riportato dal rapporto governativo sulla situazione ambientale degli oceani, pubblicato nel 2010. In totale in questo periodo quasi 12.000 tonnellate di petrolio si sono riversate nei mari della Cina, se ci si vuole fermare alle stime del governo cinese. E dal momento che lì vige ancora la censura, è facile ipotizzare che il danno arrecato all’ambiente sia ancora più grosso.

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