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domenica 1 gennaio 2012

Un paese a forma di cesso

                di Claudio Messora
                       dal sito byoblu



 Vi hanno sempre detto che l'Italia era a forma di stivale. Vi hanno mentito!

 I microbi che albergano sulle pareti di un water closet probabilmente non se ne rendono conto, ma non fanno una bella vita. Finchè non mettono il naso fuori, però, non lo sanno. Per chi non è abituato, varcare i confini delle gabbie significa cedere allo stupore. Come gli indios abbacinati dalle perline, la prima reazione di un italiano all'estero è di pura meraviglia. E' tutto un "caspita!", "ma guarda...", "non l'avrei mai detto", "ma ti rendi conto?". La vera presa di coscienza arriva al fatidico momento del rientro. E' come tornare a casa dal cinema e realizzare che era solo un film.


Qualche anno fa, prima che il virus della trasformazione interiore mi imbarcasse d'ufficio nell'avventura del blog, giravo per lavoro. Ricordo che l'ultimo viaggio fu a Bruxelles. Una sera dovevo raggiungere dei colleghi in centro. Presi un tram. Non lo sentii arrivare. Sembrava la fata piumetta che danza su un tappeto di velluto. I sedili erano in pelle. Pareva di stare in salotto. A un certo punto il tram ha iniziato un percorso sotterraneo. Io ero abitutato alla metropolitana milanese. Non un solo rumore molesto superava i cristalli dei finestrini. Fuori, anziché il consueto tunnel buio, sporco e angusto, una fila di vetrine mettevano in mostra, opportunamente illuminati, gli ultimi modelli di autovettura. La stazione era finemente decorata da migliaia di tasselli di ceramica a comporre mosaici raffinati. Non c'era una cartaccia per terra. A un certo punto c'era un incrocio. Sotto terra. Abbiamo lasciato passare un altro tram, poi siamo passati noi. Non ho sentito un solo tremolio, un solo rumore, nulla che mi facesse sentire a casa, nel consueto frastuono e nella lordura totale.

Quando sono tornato a Milano mi sono ritrovato in una stazione del passante ferroviario. Non una struttura fatiscente di 50 anni fa, ma una nuova e moderna arteria cittadina. Nessuna panchina. Il cemento vivo alle pareti, mai intonacato. Ovunque, improbabili scarabocchi di bombolette spray. Sulle rotaie, sacchi di spazzatura. Il treno sporco che quasi faceva schifo sedersi. Welcome back home, italian!

 Ma forse, si dirà, il paragone con Bruxelles è troppo ardito (e perché poi?). Allora prendiamo la tanto vituperata Grecia. Gli italiani la considerano solo per le isolette dove vanno a fornicare. Per il resto noi, l'ottava potenza industriale (appena superati dal Brasile), crediamo che i nostri servizi siano superiori.

 Un anno tornavo da Dubai. L'aereo ha fatto scalo ad Atene. Mi pungeva vaghezza di cambiare acqua all'apparato idrico (dovevo fare la pipì). Negli Emirati Arabi Uniti, nei bagni pubblici puoi anche mangiarci. Non fai in tempo a sgocciolare che c'è un inserviente che asciuga le chiazze per terra. Credevo che l'impatto sarebbe stato forte. Invece i rubinetti erano dorati, lucidati a nuovo, le piastrelle luccicavano, le tazze sembravano appena uscite dalla fabbrica. Sapone della migliore qualità, musica di sottofondo (anche il bigolo ha bisogno della sua atmosfera), tovagliolini imbevuti e arrotolati...
 No, l'impatto vero è avvenuto a Linate. Uno di quei cessi dove di solito non tocco la maniglia della porta di ingresso con le mani, nè tantomeno la tocco all'uscita, dopo essermi lavato (sempre che ci sia il sapone).

 L'altro giorno era Santo Stefano. Mia mamma ha una certa età. Le era venuto un ascesso terrificante al dente. L'ho portata al pronto soccorso odontoiatrico, in via della Commenda, 10. No, non in un piccolo paesino del profondo sud, cui i settentrionali si sentono sempre superiori, ma nel pieno centro di Milano, la capitale economica del paese. La città della Bocconi, dove il professor Monti è presidente, per intenderci.

 A parte l'ambiente spartano (non ci formalizziamo per queste inezie), non c'era uno straccio di fila organizzata, né per priorità né per ordine di arrivo. Ogni mezz'oretta, se andava bene, usciva un'infermiera e chiedeva a chi toccava. Immaginate per una trentina di persone in attesa cosa poteva significare, oltre al dolore e al disagio, doversi anche contare ripetutamente. C'era una specie di apparecchio automatico per pagare il ticket, ma ovviamente era fuori servizio.

Ma il punto è un altro. Mio padre è malato. Una di quelle malattie che ti fanno tornare bambino. Era per forza di cose insieme a noi. Voleva fare la pipì. Ho cercato il bagno e ce l'ho portato. C'era una squallida latrina appoggiata a terra senza coperchio. Ogni tanto controllavo. Quando ho visto che era riuscito a rivestirsi, gli ho fatto lavare le mani. Non c'era il sapone. Ma non c'era neppure uno straccio di tovagliolino di carta per asciugarsi le mani. Non un asciugamano a rotolo, non un asciugatoio elettrico, neppure uno schifo di rotolo di carta igienica. Era un pronto soccorso, un luogo dove si arriva in condizioni di emergenza.

L'ho guardato e gli ho detto: "Papà, asciugati le mani sulla giacca". Ma dentro, non so dirvi come mi sia sentito.

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