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lunedì 4 marzo 2013

[Giovanni Falcone Dossier] Il fenomeno mafioso: dalla consuetudine secolare all'organizzazione manageriale

tratto da AntimafiaDuemila

di Giovanni Falcone



Si legge ancora che "questa forma criminosa non specialissima della Sicilia", esercita "sopra tutte le varietà di reati" "una grande influenza imprimendo… a tutti quel carattere speciale che distingue dalle altre la criminalità siciliana e senza la quale molti reati o non si commetterebbero o lascerebbero scoprirne gli autori". Si rileva altresì che, già sotto il governo di re Ferdinando, "la mafia si era infiltrata anche nelle altre classi, cosa che da alcune testimonianze è ritenuta vera anche oggidì". Già nel secolo scorso, quindi, il problema mafia si manifestava in tutta la sua gravità; infatti, si legge nella richiamata relazione: "Le forze militari concentrate per questo servizio in Sicilia ascendevano a ventidue battaglioni e mezzo tra Fanteria e Bersaglieri, due squadroni di Cavalleria e quattro plotoni di Bersaglieri montati, oltre i Carabinieri in numero di 3.120". "Pareva di trovarsi in mezzo ad una fazione di guerra guerreggiata o in un Paese sottoposto all'occupazione straniera…;
eppure, tranne qualche timida aspirazione, nessuno osava domandare il ritiro o la diminuzione delle forze; quasi tutti ripetevano dalla ostentazione di esse il sentimento di sicurezza che cominciava a penetrare nello spirito pubblico". Da allora, bisogna attendere i tempi del prefetto Mori per registrare un tentativo di seria repressione del fenomeno mafioso; ma i limiti di quel tentativo sono ben noti a tutti.
Nell'immediato dopoguerra - e fino ai tragici fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni 1962-63 - gli organismi responsabili ed i mezzi di informazione sembrano fare a gara per minimizzare il fenomeno. Al riguardo, appaiono significativi i discorsi di inaugurazione dell'anno giudiziario, pronunciati dai procuratori generali di Palermo. Nel discorso inaugurale del 1954, il primo del dopoguerra, si insiste nel concetto che la mafia "più che una associazione tenebrosa costituisce un diffuso potere occulto", ma non si manca di fare un accenno alla gravissima vicenda del banditismo ed ai comportamenti non ortodossi di "qualcuno che avrebbe dovuto e potuto stroncare l'attività criminosa"; il riferimento, è chiaro, riguarda il procuratore generale di Palermo, dottor Pili, espressamente menzionato nella sentenza emessa dalla Corte di assise di Viterbo il 3 maggio 1952: "Giuliano ebbe rapporti, oltre che con funzionari di pubblica sicurezza, anche con un magistrato, precisamente con chi era a capo della Procura generale presso la Corte d'appello di Palermo: Emanuele Pili". Nelle relazioni inaugurali degli anni successivi, gli accenni alla mafia, in piena armonia con un clima generale di minimizzazione del problema, sono fugaci e del tutto rassicuranti. Così, nella relazione del 1956, si proclama che il fenomeno della delinquenza associata è scomparso e, in quella del 1957, si accenna appena a delitti di sangue da ascrivere, si dice, ad "opposti gruppi di delinquenti". Nella relazione del 1967, si asserisce che il fenomeno della criminalità mafiosa è entrato in una fase di "lenta ma costante sua eliminazione" e, in quella del 1968, si raccomanda l'adozione della misura di prevenzione del soggiorno obbligato, dato che il mafioso "… fuori del proprio ambiente diventa pressoché innocuo".
Questi brevissimi richiami storici ci danno la misura di come il problema mafia sia stato sistematicamente svalutato da parte degli organismi responsabili, benché il fenomeno, nel tempo, lungi dall'esaurirsi, abbia accresciuto la sua pericolosità. E non mi sembra azzardato affermare che una delle cause dell'attuale virulenza della mafia risieda, proprio, nella scarsa attenzione complessiva dello Stato nei confronti di questa secolare realtà. Non si può, comunque, disconoscere che, specie negli ultimi anni, qualcosa sia cambiato, ma, per contro, i livelli di intervento sono tuttora insoddisfacenti e procedono a corrente alternata. Debbo registrare con soddisfazione, dunque, il discorso pronunciato dal capo della polizia, Vincenzo Parisi, appena un mese fa (18 maggio 1988) alla Scuola di polizia tributaria della Guardia di finanza. In tale intervento, particolarmente significativo per l'autorevolezza della fonte, il capo della polizia, in sostanza, individua nella criminalità organizzata e in quella economica i referenti della maggior parte delle attività illecite del nostro Paese, tra le quali spiccano, soprattutto, il traffico di stupefacenti e il commercio clandestino di armi. La criminalità organizzata - e quella mafiosa in particolare -, come si sostiene in quell'intervento, "interagisce sempre più frequentemente con la criminalità economica allo scopo di individuare nuove soluzioni per la ripulitura ed il reimpiego del danaro sporco". L'analisi del prefetto Parisi, ovviamente fondata su dati concreti, ha riacceso l'attenzione sulla cruda realtà delle organizzazioni criminali e denuncia, con toni giustamente allarmanti, il pericolo di una saldatura tra criminalità tradizionale e criminalità degli affari; pericolo che minaccia la stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche, come ci insegnano le esperienza di alcuni Paesi del Terzo mondo, in cui i trafficanti di droga hanno acquisito una potenza economica tale che si sono perfino offerti - ovviamente, non senza contropartite - di ripianare il deficit del bilancio statale.
Ci si domanda, allora, come sia potuto accadere che una organizzazione criminale come la mafia - ritenuta generalmente, per lungo tempo, un fenomeno delinquenziale legato alla situazione di arretratezza socio-economica del Meridione - anziché avviarsi al tramonto, in correlazione col miglioramento delle condizioni di vita e del funzionamento complessivo delle istituzioni, abbia, invece, vieppiù accresciuto la sua virulenza e la sua pericolosità.
Un convincimento diffuso, che ha trovato ingresso perfino in alcune sentenze della Suprema Corte, è quello secondo cui oggi saremmo in presenza di una nuova mafia, con le connotazioni proprie di una associazione criminosa, diversa dalla vecchia mafia, che non sarebbe stata altro che l'espressione, sia pure distorta ed esasperata, di un "comune sentire" di larghe fasce delle popolazioni meridionali. In altri termini, la mafia tradizionale non esisterebbe più e dalle sue ceneri sarebbe sorta una nuova mafia, quella mafia imprenditrice per intenderci, così bene analizzata dal prof. Arlacchi. Tale opinione è antistorica e fuorviante, anzitutto, occorre sottolineare con vigore che Cosa nostra (perché questo è il vero nome della mafia) non è, e non si è mai identificata con quel potere occulto e diffuso di cui si è favoleggiato fino a tempi recenti, ma è una organizzazione criminosa - unica ed unitaria - ben individuata ormai nelle sue complesse articolazioni, che ha sempre mantenuto le sue finalità delittuose. Con ciò, evidentemente, non si intende negare che negli anni Cosa nostra non abbia subìto mutazioni a livello strutturale ed operativo e che altre ne subirà, ma si vuole sottolineare che tutto è avvenuto nell'alveo di una continuità storica e nel rispetto delle regole tradizionali. E proprio la particolare capacità della mafia di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici alle mutevoli esigenze dei tempi costituisce una delle ragioni più profonde della forza di tale consorteria, che la rende tanto diversa dalle comuni organizzazioni criminali. Se, oltre a ciò, si considerano la sua capacità di mimetizzazione nella società, la tremenda forza di intimidazione derivante dalla inesorabile ferocia delle punizioni inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni criminosi, l'elevato numero e la statura criminale dei suoi adepti, ci si può rendere ben conto dello straordinario spessore di questa organizzazione, sempre nuova e sempre uguale a se stessa.

Altro punto fermo da tener ben presente è che, al di sopra dei vertici organizzativi, non esistono terzi livelli di alcun genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa nostra. Ovviamente, può accadere ed è accaduto che, in determinati casi e a determinate condizioni, l'organizzazione mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari ed abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo non disinteressatamente; gli omicidi politici commessi in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri centri di potere. Cosa nostra, però, nelle alleanze non accetta posizioni di subalternità; pertanto, è da escludere in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarla o dirigerla dall'esterno. E, in verità, in tanti anni di indagini specifiche sulle vicende di mafia, non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il sospetto dell'esistenza di una "direzione strategica" occulta di Cosa nostra. Gli "uomini d'onore" che hanno collaborato con la giustizia, alcuni dei quali figure di primo piano dell'organizzazione, ne conoscono l'esistenza. Lo stesso dimostrato coinvolgimento di personaggi di spicco di Cosa nostra in vicende torbide ed inquietanti, come il golpe Borghese ed il falso sequestro di Michele Sindona, non costituiscono un argomento a contrario perché hanno una propria specificità ed una peculiare giustificazione in armonia con le finalità dell'organizzazione mafiosa. E se è vero che non pochi uomini politici siciliani sono stati, a tutti gli effetti, adepti di Cosa nostra, è pur vero che in seno all'organizzazione mafiosa non hanno goduto di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione politica. Insomma, Cosa nostra ha tale forza, compattezza ed autonomia che può dialogare e stringere accordi con chicchessia, mai però in posizioni di subalternità.
Queste peculiarità strutturali hanno consentito alla mafia di conquistare un ruolo egemone nel traffico, anche internazionale, dell'eroina. Ma, per comprendere meglio le cause dell'inserimento della mafia nel lucroso giro della droga, occorre prendere le mosse dal contrabbando di tabacchi, una delle più tradizionali attività illecite della mafia. Il contrabbando è stato a lungo ritenuto una violazione di lieve entità perfino negli ambienti investigativi e giudiziari ed il contrabbandiere è stato addirittura tratteggiato dalla letteratura e dalla filmologia come un romantico avventuriero. La realtà era però ben diversa, essendo il contrabbandiere un personaggio al soldo di Cosa nostra, se non addirittura un mafioso egli stesso; ed il contrabbando si è rivelato un'attività ben più pericolosa della mera violazione di un interesse finanziario dello Stato, in quanto ha fruttato ingenti guadagni, che hanno consentito l'ingresso nel mercato degli stupefacenti della mafia, ed ha aperto e collaudato quei canali internazionali, sia per il trasporto della merce, sia per il riciclaggio del danaro, poi utilizzati per il traffico di stupefacenti.
Occorre precisare, a questo proposito, che già nel contrabbando di tabacchi, si realizzano importanti novità della struttura mafiosa. E' ormai di comune conoscenza che Cosa nostra è organizzata con una struttura piramidale basata sulla "famiglia"; e ogni "uomo d'onore" soleva intrattenere rapporti di affari prevalentemente con altri membri della stessa "famiglia" e solo sporadicamente con altre "famiglie", essendo riservato ai vertici delle varie "famiglie" il coordinamento in seno agli organismi provinciali e regionali. Assunta la gestione del contrabbando di tabacchi, che comportava l'impiego di consistenti risorse umane in operazioni compiute per lo più in aree sottratte al controllo della "famiglia" interessata, sorgeva la necessità di associarsi con membri di altre "famiglie" e, perfino, anche con personaggi estranei a Cosa nostra, se non addirittura con stranieri. Si ricorderà che, negli anni d'oro del contrabbando di tabacchi (1974 - 1979), numerose navi contrabbandiere, con equipaggi soprattutto greci, hanno solcato le acque del Mediterraneo per trasportare in Italia i carichi di sigarette di pertinenza di Cosa nostra e che grossi industriali, residenti in Svizzera, si occupavano delle forniture delle sigarette. Per effetto dell'allargamento dei rapporti di affari con altri soggetti, spesso non mafiosi, sorge la necessità di creare strutture nuove di coordinamento che, pur controllate da Cosa nostra, con la stessa non si identificassero. Si formano, così, associazioni di contrabbandieri, dirette e coordinate da "uomini d'onore", che non si identificano, però, con Cosa nostra. Le associazioni sono aperte alla partecipazione finanziaria di altri "uomini d'onore" non coinvolti operativamente nel contrabbando, previo assenso e nella misura stabilita dal proprio "capo famiglia". In pratica, dunque, la antica, rigida compartecipazione degli "uomini d'onore" in "famiglie" comincia a cedere il posto a strutture più allargate e ad una diversa articolazione delle alleanze in seno all'organizzazione.
Cosa nostra, però, non si limita ad esercitare il suo controllo sulle associazioni contrabbandiere mafiose, ma cerca di estendere il controllo ad organizzazioni criminali similari, specialmente nel Napoletano, per assicurare un efficace funzionamento del commercio e nel tentativo di monopolizzare il traffico illecito. Già da tempo esisteva a Napoli una "famiglia" mafiosa dipendente direttamente dalla "provincia" di Palermo; cosa che non deve stupire perché la presenza di "famiglie" mafiose o di sezioni delle stesse ("decine") fuori della Sicilia, ed anche all'estero, è un fenomeno risalente negli anni (la stessa Cosa nostra statunitense, in origine, non era altro che un insieme di "famiglie" costituenti diretta filiazione di Cosa nostra siciliana). La mafia siciliana interviene, quindi, presso la malavita napoletana con lo scopo dichiarato di sanare i contrasti interni, ma, più verosimilmente, con l'intento di fomentare le discordie per assumere la direzione dell'intero affare. Ecco perché nel corso degli anni sono stati individuati collegamenti importanti tra esponenti di spicco della malavita isolana e noti camorristi campani, difficilmente spiegabili già allora come semplici contatti fra organizzazioni criminose diverse. Ed ecco, dunque, perché il contrabbando di tabacchi costituì una spinta decisiva al coordinamento fra organizzazioni criminose, tradizionalmente operanti in territori distinti; coordinamento la cui pericolosità è intuitiva.
Nella seconda metà degli anni Settanta, pertanto, Cosa nostra, con le sue strutture organizzative, con i canali operativi e di riciclaggio già attivati per il contrabbando e con le larghe disponibilità finanziarie acquisite, aveva tutte le carte in regola per entrare, non più in modo episodico come nel passato, nel grande traffico degli stupefacenti. In più, la presenza negli Usa di un folto gruppo di siciliani collegati con Cosa nostra garantiva la distribuzione della droga in quel Paese. Non c'è da meravigliarsi, allora, se la mafia siciliana abbia potuto impadronirsi in breve tempo del traffico dell'eroina verso gli Stati Uniti d'America. Anche nella gestione di questo lucroso affare l'organizzazione ha mostrato la sua straordinaria capacità di adattamento, avendo creato, forte dell'esperienza del contrabbando, strutture agili e snelle che, per lungo tempo, hanno reso pressoché impossibili le indagini. Alcuni gruppi curavano l'approvvigionamento della morfina base dal Medio e dall'Estremo Oriente, altri erano addetti esclusivamente ai laboratori per la trasformazione della morfina base in eroina, altri, infine, si occupavano dell'esportazione dell'eroina verso gli Usa. Tutte queste strutture erano controllate e dirette da "uomini d'onore". In particolare, il funzionamento dei laboratori clandestini, almeno agli inizi, era affidato ad esperti chimici francesi, reclutati grazie ai collegamenti esistenti con il "milieu" marsigliese fin dai tempi della "French connection". L'esportazione della droga, come è stato dimostrato da indagini anche recenti, veniva curata da organizzazioni parallele, addette al reclutamento dei corrieri e collegate a livello di vertice con "uomini d'onore" preposti a tale settore del traffico. Meno significativo rispetto al traffico dell'eroina è stato inizialmente il coinvolgimento di Cosa nostra nel commercio di altre droghe, ma, per quanto riguarda hashish e cocaina, alcune strutture, soprattutto della Sicilia orientale, sono da tempo addette a questo tipo di droghe a notevoli livelli, con collegamenti con la Camorra noti da tempo. Si tratta, dunque, di strutture molto articolate e solo apparentemente complesse che, per lunghi anni, hanno funzionato egregiamente, consentendo alla mafia ingentissimi guadagni.

Un discorso a sé merita il capitolo del riciclaggio del danaro. Cosa nostra ha utilizzato organizzazioni internazionali, operanti in Italia, di cui si serviva già fin dai tempi del contrabbando di tabacchi; ma è ovvio che i rapporti sono divenuti assai più stretti e frequenti per effetto degli enormi introiti derivanti dal traffico di stupefacenti. Ed è chiaro, altresì, che, nel tempo, i sistemi di riciclaggio si sono sempre più affinati in dipendenza sia delle maggiori quantità di danaro disponibili, sia soprattutto della necessità di eludere investigazioni sempre più incisive. Per un certo periodo il sistema bancario ha costituito canale privilegiato per il riciclaggio del danaro. Di recente è stato addirittura accertato il coinvolgimento di interi Paesi nelle operazioni bancarie di cambio della valuta estera. Senza dire che non poche attività illecite della mafia, costituenti per sé un'autonoma fonte di ricchezza (come, ad esempio, le cosiddette truffe comunitarie), hanno costituito il mezzo per consentire l'afflusso in Sicilia di ingenti quantitativi di danaro, già ripulito all'estero, quasi per intero proveniente dal traffico degli stupefacenti.
Quali effetti ha prodotto in seno all'organizzazione di Cosa nostra la gestione del traffico degli stupefacenti? Contrariamente a quanto ritenevano taluni mafiosi più tradizionalisti, la mafia non si è rapidamente dissolta ma ha accentuato le sue caratteristiche criminali. Le alleanze orizzontali tra "uomini d'onore" di diverse "famiglie" e di diverse "province", hanno favorito il processo, già in atto da tempo, di gerarchizzazione di Cosa nostra ed al contempo, indebolendo la rigida struttura di base, hanno alimentato mire egemoniche. Infatti, nei primi anni Settanta, per assicurare un miglior controllo dell'organizzazione, veniva costituito un nuovo organismo di vertice, la "commissione" regionale, composta dai capi delle "province" mafiose siciliane, col compito di stabilire regole di condotta e di applicare sanzioni negli affari concernenti Cosa nostra nel suo complesso. Ma le fughe in avanti di taluni "uomini d'onore" erano difficilmente controllabili. Esplodeva così nel 1978 una violenta contesa, culminata negli anni 1981 - 1982. Due opposte fazioni si sono affrontate in uno scontro di una ferocia senza precedenti, che investiva tutte le strutture di Cosa nostra causando centinaia di morti. I gruppi avversari aggregavano "uomini d'onore" delle più varie "famiglie" spinti dall'interesse personale, a differenza di quanto era avvenuto nella prima guerra di mafia, caratterizzata dallo scontro tra "famiglie"; e ciò a dimostrazione del superamento della rigida compartimentazione in "famiglie" in seno a Cosa nostra.
La sanguinosa contesa non ha determinato - come ingenuamente si prevedeva - un indebolimento complessivo di Cosa nostra, ma, al contrario, un rafforzamento ed un rinsaldamento delle strutture mafiose che, depurate dagli elementi più deboli (eliminati nel conflitto), si compattavano sotto il dominio di un gruppo egemone che ha accentuato al massimo la segretezza ed il verticismo. Il nuovo gruppo dirigente forniva ben presto una sinistra dimostrazione della sua potenza e vitalità e, fin dall'aprile del 1982, scatenava una violenta offensiva contro le istituzioni con l'eliminazione di chiunque poteva costituire un ostacolo. Gli omicidi di Pio La Torre, di Carlo Alberto dalla Chiesa, di Rocco Chinnici, di Giangiacomo Ciaccio Montalto, di Beppe Montana, di Ninni Cassarà, al di là delle specifiche ragioni della eliminazione di ciascuno di essi, testimoniano una drammatica realtà e tutto ciò mentre il traffico di stupefacenti e le altre attività illecite andavano a gonfie vele, nonostante l'impegno delle forze dell'ordine (l'ultimo laboratorio di eroina scoperto in Sicilia rimonta all'aprile 1985, ma nell'anno successivo sono stati effettuati sequestri di consistenti partite di droga in partenza da Palermo).
La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa nostra e la conclusione di inchieste giudiziarie approfondite  e ponderose hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla mafia. Ma se la celebrazione, tra difficoltà di ogni genere, di questi processi ha indotto Cosa nostra ad un ripensamento di strategia, certamente non ha segnato l'inizio della fine del fenomeno mafioso. Il declino della mafia più volte annunciato non si è verificato, e non è, purtroppo, nemmeno prevedibile. E' vero che non pochi "uomini d'onore", diversi dei quali di importanza primaria, sono in atto detenuti; tuttavia, i vertici di Cosa nostra sono latitanti e non sono sicuramente costretti all'angolo. Le indagini di polizia giudiziaria, ormai da qualche anno, hanno perso di intensità e di incisività a fronte di un'organizzazione mafiosa sempre più impenetrabile e compatta, talché le notizie in nostro possesso sull'attuale consistenza dei quadri mafiosi e sui nuovi adepti sono veramente scarse. Ne è possibile trarre buoni auspici dalla drastica riduzione dei fatti di sangue, peraltro circoscritta al Palermitano e solo in minima parte ascrivibile all'azione repressiva. La tregua, infatti, è purtroppo frequentemente interrotta ad assassinii di mafiosi di rango, segno che la resa dei conti non è finita e, soprattutto, da omicidi dimostrativi che hanno creato notevole allarme sociale; si pensi all'omicidio di Roberto Parisi avvenuto nel febbraio 1985 e agli omicidi dell'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco e dell'agente della Polizia di Stato Natale Mondo, consumati appena qualche mese addietro. Gli omicidi di Insalaco e di Parisi costituiscono l'eloquente conferma che gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e occulti centri di potere, costituiscono tuttora nodi irrisolti, con la conseguenza che, fino a quando non sarà fatta luce su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi "omicidi eccellenti", non si potranno fare molti passi avanti.
Malgrado i processi e le condanne, risulta da inchieste giudiziarie ancora in corso, che la mafia non ha abbandonato il traffico di eroina ed anzi, comincia ad interessarsi sempre più alla cocaina; si hanno già notizie precise di transazioni avvenute in America tra mafia ed altre organizzazioni criminali di eroina in cambio di cocaina: fatto piuttosto inquietante per le nuove possibili alleanze criminali cui può essere indotta Cosa nostra. Le indagini per la individuazione dei canali di riciclaggio del danaro proveniente dal traffico di stupefacenti sono rese molto difficili, sia a causa di una cooperazione internazionale ancora insoddisfacente, sia per il ricorso, da parte dei trafficanti, a sistemi di riciclaggio sempre più sofisticati. Per quanto riguarda, poi, le altre attività illecite, va registrato che accanto ai crimini tradizionali, come ad esempio le estorsioni sistematizzate e le intermediazioni parassitarie, nuove e più insidiose attività cominciano ad acquisire rilevanza. Mi riferisco ai casi sempre più frequenti di imprenditori non mafiosi che subiscono da parte dei mafiosi richieste perentorie di compartecipazioni all'impresa, e ciò anche allo scopo di eludere le investigazioni patrimoniali rese obbligatorie dalla normativa antimafia.
Questa, in brevissima sintesi, è la situazione attuale che, a mio avviso, non legittima alcun trionfalismo. Sono in corso investigazioni di polizia giudiziaria  e inchieste giudiziarie che verosimilmente daranno buoni risultati, ma lo scenario è tutt'altro che confortante se si tiene conto che, di fronte alla necessità di una attività repressiva ancora più efficace e professionale di prima, le forze in campo vanno progressivamente scemando, per quantità e qualità. Mi rendo conto che la fisiologica  stanchezza, conseguente ad una fase di tensione morale eccezionale e protratta, può aver determinato un generale clima, se non di smobilitazione, certamente di disimpegno. E, per quanto mi riguarda, non ritengo di avere alcun titolo di legittimazione per censurare chicchessia o per suggerire rimedi. Ma ritengo mio preciso dovere morale sottolineare, anche a costo di passare per profeta di sventure, che continuando a percorre questa strada, nel futuro prossimo, saremo costretti a confrontarci con una realtà sempre più difficile.

Relazione tratta dal libro "Interventi e proposte", per gentile concessione della fondazione "Giovanni e Francesca Falcone".

Articolo pubblicato sul numero di ANTIMAFIAduemila maggio 2000

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